“Nuovi sguardi per interventi più appropriati: comprendere il mondo giovanile e prevenire il disagio”

“Nuovi sguardi per interventi più appropriati: comprendere il mondo giovanile e prevenire il disagio”

Sig. Prefetto, autorità presenti, amici, buongiorno.

Perché parlare di nuovi sguardi?

  • Perché i cambiamenti socio-culturaliil digitale, la pandemia, la crisi climatica, l’incertezza lavorativa – stanno trasformando il mondo giovanile a velocità mai viste.
  • Perché la distanza tra adulti e giovani è sempre più evidente.
  • Perché gli strumenti con cui leggiamo il disagio oggi rischiano di essere inadeguati o superati.
  • Perché gli interventi calati dall’alto, senza coinvolgere i giovani, sono spesso inefficaci.

Siamo qui oggi in occasione della Giornata mondiale contro le droghe, ma vorrei iniziare da un’altra parola: relazioni. Quando parliamo di disagio giovanile, di consumo di sostanze, di comportamenti a rischio, ci concentriamo spesso su ciò che non funziona. Raramente, però, ci chiediamo che cosa manca nella vita di quei ragazzi. E, soprattutto, chi manca. Per troppo tempo il tema delle dipendenze è stato affrontato con lenti punitive: controllo, repressione, isolamento. Oggi serve il coraggio di cambiare prospettiva: Non domandiamoci solo cosa fanno i giovani, ma perché lo fannoche cosa cercanoquali vuoti cercano di riempire. E a volte – ce lo dicono loro stessi – quel vuoto è fatto proprio dal troppo pieno: di aspettative, pressioni, rumore. Incontro molti giovani e vedo in loro che i loro comportamenti a rischio non nascono da devianza, ma da fragilità non ascoltate, da solitudini invisibili.

1. Dal controllo alla comprensione

Oggi sempre più dobbiamo pensare che il disagio giovanile non è un nemico da combattere, ma è un messaggio da interpretare. Mai avrei immaginato di accogliere in comunità per dipendenze bambini di 12 anni, già coinvolti in gravi forme di polidipendenza. Ma quando ti avvicini davvero, capisci che non cercano controllo. Cercano presenza. Restano in comunità non per obbligo: restano perché lì trovano relazioni autentiche. Restano proprio perché le porte sono aperte, perché sentono di essere accolti, visti, riconosciuti. Questo ci dice che è il momento di passare da un paradigma dell’intervento a uno della prevenzione fondata sul legame.

2. Il bisogno di adulti significativi

I giovani non cercano solo interventi. Cercano presenze autentiche. Abbiamo bisogno di adulti che siano punti di riferimento, capaci di vedere le fragilità prima di giudicarle. Un ragazzo ascoltato e accompagnato oggi, non dovrà essere salvato domani.

3. La comunità educante non è uno slogan

Prevenzione non significa solo fare informazione. Significa intessere relazioni. Scuola, famiglia, servizi, parrocchie, associazioni… tutti devono tornare a parlarsi, fare rete in modo vero e continuativo. Nessun servizio da solo può sostenere il peso del disagio giovanile. Ma una comunità educante coesa, sì. Non sentirsi soli nella presa in carico dei giovani divide i pesi, moltiplica le risorse e costruisce sguardi comuni. Il ruolo delle istituzioni è centrale: non solo nel coordinare, ma nel facilitare le relazioni, nel nutrire la fiducia, nel sostenere il protagonismo giovanile. Essere una comunità educante non vuol dire fare progetti a tempo, vuol dire esserciogni giornoprima del problema.

4. Ascoltare i giovani, non solo parlare di loro

Troppo spesso parliamo dei giovani senza di loro. Ma se vogliamo costruire interventi efficaci, dobbiamo coinvolgerli, dare loro voce. Hanno linguaggi nuovi, sensibilità diverse, strumenti che noi adulti spesso non conosciamo. Prevenzione significa esserci con loro, non solo per loro.  Penso ai ragazzi volontari di Rogoredo, che ogni giorno si impegnano contro l’indifferenza. Non si limitano a subire: si rimboccano le maniche, guardano la realtà con occhi nuovi. Propongono sguardi concreti, responsabili, creativi. Vanno oltre lo stigma, oltre l’emergenza.
Diventano dei giovani generatori di futuro, di possibilità, di legami.

5. Una prevenzione generativa

La prevenzione non può limitarsi ad evitare il danno. Deve essere generativa: capace di creare futuro, benessere, senso di appartenenza. Dobbiamo investire in spazi di crescita, in esperienze culturali, artistiche, sportive, che permettano ai ragazzi di esprimersiconoscersisentirsi visti.

Conclusione

Se vogliamo affrontare davvero il disagio giovanile, dobbiamo cambiare paradigma:

  • Dalla paura alla fiducia
  • Dalla solitudine alla corresponsabilità
  • Dalla frammentazione alla comunità educante

Ogni adulto – educatore, insegnante, operatore, amministratore – ha una responsabilità educativa. Un ragazzo riconosciuto, ascoltato, stimato, è un ragazzo che può affrontare anche il buio… e scegliere, ogni volta, la vita

Dobbiamo uscire dagli uffici e incontrare i ragazzi dove sono. Passare dalla logica dell’emergenza alla cura quotidiana dei legami. Immaginare un nuovo patto educativo, in cui ciascuno – istituzioni, famiglie, scuole, territori – si senta parte attiva di una responsabilità comune. Perché nessun giovane può diventare adulto da solo. E noi, per diventare adulti veri, dobbiamo imparare a stare con loro, nel modo giusto.

Grazie per l’attenzione

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