SIMONE FEDER: Stare vicino ai giovani per amarli

SIMONE FEDER: Stare vicino ai giovani per amarli

All’Abbadia di Fiastra di Tolentino, in provincia di Macerata continuano gli incontri giubilari, in collaborazione con l’Azione Cattolica Italiana diocesana, Sermirr di Recanati e Sermit di Tolentino e su proposta di don Rino Ramaccioni è stato invitato l’educatore Simone Feder, psicologo e coordinatore dell’area ‘giovani e dipendenze’ della ‘Casa del Giovane’ di Pavia, che ha raccontato storie di ‘Giovani, speranza del mondo’, descrivendo il modo in cui i giovani possono diventare risorsa, ma sono troppo spesso senza una ‘bussola’ davanti al dilagare della droga:

“Vedo l’uso di sostanze devastanti che portano danni irreparabili anche livello sanitario e di cui pagheremo un prezzo salato, danni irreparabili fisici e della percezione della realtà che queste sostanze provocano. Il problema oggi non sono più le politiche di riduzione del danno, perché il problema non è più la droga ma il malessere, la sofferenza, è quella che dobbiamo ridurre non tanto le sostanze. Oggi abbiamo ragazzini di 13 anni già pieni di sostanze che vengono trascinati sempre più con fatica dai genitori, fragili anche loro”.

Ed ecco la proposta educativa riprendendo lo stile di san Giovanni Bosco: “Il mio invito è quello di cambiare questo sguardo punitivo e repressivo; occorre un punto di partenza diverso. Provo a dirlo con san Giovanni Bosco: non basta amare i ragazzi, devono sentirsi amati”.

Simone Feder, in quale modo i giovani possono essere speranza del mondo?

“I giovani sono speranza del mondo se come adulti noi ci siamo nel loro mondo, stando a fianco a loro ma non da ‘maestrini’ per costruire insieme qualcosa. Ecco che i giovani poi si attivano e generano situazioni di attenzione agli altri ed ai loro compagni diventando generatori di oltre”.

‘Generatori di oltre’, ma allora per quale motivo definiamo i giovani apatici?

“E’ un mondo che abbiamo portato noi adulti, adolescenti perenni che non riusciamo a vedere se non una parte del loro essere. Sono convinto che i giovani non sono apatici, ma vivono una situazione che li porta sempre più a spegnersi. Bisogna riattivare queste situazioni; ma quali spazi hanno oggi i giovani per giocarsi interessi diversi che noi continuiamo a proporgli, cioè il nulla. Dentro questo nulla rischiano di naufragare in questo mare”.

Ma i giovani cercano il senso della vita?

“Sempre più ragazzi, anche non definiti ‘problematici’, chiedono aiuto per dare un senso alla propria vita. Sono insoddisfatti di ciò che li circonda e cercano risposte. Sono come i ‘canarini nella miniera’, che ci segnalano un ambiente tossico, incapace di offrire loro l’ossigeno necessario per crescere e trovare motivazioni. Per questo, è fondamentale proporre loro esperienze significative, come il volontariato, che possano far emergere un’alternativa concreta. Ma non basta offrirle: bisogna esserci anche nel lungo periodo, sostenendoli nelle difficoltà quotidiane, insomma impegnarsi ed essere determinati”.

Quali parole possono essere necessarie per iniziare un dialogo con i giovani?

“Ciò che deve smuovere le coscienze è ricordarci che di fronte a noi ci sono delle persone. Dobbiamo avvicinarci a chi soffre con uno sguardo pulito e sincero, trasmettere attenzione, comunicare con il cuore, stringergli la mano, chiamarlo per nome. Dobbiamo rispettarlo, anche nei suoi silenzi: rispettare i tempi dell’altro è fondamentale, è così che si costruisce una relazione. Quando mi occupo della formazione dei giovani volontari che operano al bosco di Rogoredo, ripeto sempre che ciò che conta è la sincerità dell’approccio, andare in questo ‘non-posto’ per essere d’aiuto e non per raggiungere un obiettivo. Può passare molto tempo prima che un giovane accetti di fidarsi di te, seguirti e iniziare un percorso di recupero. L’essenziale, innanzitutto, è fargli sentire il tuo sostegno: quando vuoi, io ci sono”.

Per quale motivo le droghe sono tornate prepotentemente alla ribalta?

“A livello culturale stiamo sdoganando la trasgressione; c’è maggior offerta di sostanze ovunque e ci sono anche politiche di intervento che non sono pensate. Oggi non è tanto intervenire sulle cose disfunzionali, ma bisogna proporre qualcosa di più funzionale, cioè l’altra parte della bilancia che bisogna arricchire, che è sempre più impoverita, facendo crescere il disfunzionale, in quanto le droghe stanno sempre più diventando ‘terapia’ del malessere giovanile”.

Partendo dalla sua esperienza in questi anni come è cambiato il mondo della ‘droga’?

“Il bosco si sta ripopolando, non siamo ancora ai numeri del 2017-2018 ma stanno crescendo i ragazzi che arrivano. Il fatto che comunque noi siamo lì (diamo anche farmaci, cibo, vestiti) aiuta a contenere un po’ i numeri. E fuori dal bosco la droga è ovunque e costa pochissimo. Ma tutto questo rischia di passare tutto in sordina. Dobbiamo chiederci a quale soglia di disagio ci stiamo abituando oggi? Crescono sempre di più gesti autolesivi, nelle famiglie ci sono concentrazioni di rabbia che esplodono in gesti violenti, anche i ragazzini si avvicinano al bosco.

Ci stiamo abituando a un disagio che nel frattempo di sta strutturando. C’è un’indifferenza generale, se lo Stato non ci aiuta vedremo domani i disastri. Se non stai in quei posti i ragazzi li perdi per sempre, i ragazzi oggi non li puoi stare ad aspettare nelle comunità, devi andare a cercarli a incontrarli. Bisogna cambiare paradigma anche dei nostri servizi. Dobbiamo cercare di intercettare e capire la sofferenza che c’è in giro. Per fortuna c’è anche chi si avvicina e si impegna volontariamente e con costanza”.

Perché Rogoredo?

“La presenza a Rogoredo è una sfida. C’è uno tsunami che ci sta travolgendo. Oggi genitori distrutti ci chiedono di andare a recuperare i loro figli o almeno di avere qualche notizia sulla loro presenza. Quello che il ‘Boschetto’ ci ha insegnato è che dobbiamo uscire dai nostri comodi setting ambulatoriali. Oggi i giovani dobbiamo andarceli a prendere. Le comunità devono uscire dalle propria mura, andare in questi non luoghi, incontrare e abbracciare questi giovani. Solo così, solo costruendo una relazione si può poi portarli alla cura.

Qualche giorno fa abbiamo raccolto nel bosco di Rogoredo un ragazzo di 23 anni steso senza conoscenza, e mi sono chiesto, come è arrivato sin lì, a casa, a scuola, nessuno ha colto il suo disagio? Che relazioni ha avuto? Come mai non ha incontrato nessuno, lo Stato dove era? Dove eravamo noi? La nostra presenza ci ha permesso di agganciare centinaia di ragazzi e ragazze in questi anni ed un centinaio sono andate in trattamento o in comunità. Ma siamo troppo soli. Oggi l’eroina al bosco la paghi € 14 al grammo, vediamo sostanze che non abbiamo mai visto come ‘krokodril’ che crea disastri sanitari, una sostanza che ‘mangia gli arti’ e provoca vistose ulcere sulla pelle. Ma c’è qualcuno che si chiede: quali sostanze girano?”

All’interno della Casa del Giovane, fondata dal venerabile don Enzo Boschetti, è stata aperta anche una chiesa giubilare: quale significato questa apertura?

“E’ stata un’occasione molto bella che il nostro vescovo della diocesi di Pavia, mons. Sanguinetti, ha voluto fare nella città, scegliendo la cappella della Casa del Giovane. Per noi questo gesto significa apertura al mondo ed alla conoscenza di quello che si vive all’interno della comunità, perché c’è l’accoglienza di tanta sofferenza, ma anche la gioia per quei giovani, che hanno fatto un percorso e stanno diventando come pietre che, scartate dai costruttori, stanno diventando testate d’angolo”.

Per quale motivo don Enzo Boschetti ha dato il nome ‘Casa del Giovane’ alla sua struttura?

“Per i giovani che negli anni Sessanta incontrava. In quegli anni della ‘contestazione giovanile’ non è rimasto a guardare ma ha cercato di dare uno spazio in cui i giovani la potessero sentire casa. Oggi cerchiamo di portare avanti questa sua ‘intuizione’. Penso che la ‘Casa del Giovane’ sia la casa di chiunque si senta giovane dentro”.

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